La vita della Comunità

Fu il Cardinale Giulio Alberoni ad affidare la formazione dei giovani candidati al sacerdozio ai Missionari della Congregazione della Missione di S. Vincenzo de’ Paoli che tuttora reggono il Collegio Alberoni e sono responsabili della formazione umana, spirituale, intellettuale e apostolica dei seminaristi.

 

 

Nell’intervento che segue padre Nicola Albanesi ci svela il senso più profondo della vita comunitaria in seminario.

La vita della comunità, il miracolo della vocazione

Padre Nicola Albanesi, Superiore del Collegio Alberoni

Quando si deve mettere mano a raccogliere gli avvenimenti della vita di un seminario, a enumerare fatti, a raccontare episodi che hanno scandito la vita delle persone coinvolte, si rischia di rimanere all’esterno, di avere uno sguardo superficiale, di non cogliere l’elemento essenziale che lo costituisce come tale.

Un seminario è una comunità di persone messe insieme dal miracolo della vocazione che accomuna seminaristi e formatori. Quando dei giovani entrano in seminario si assiste ogni volta ad un “miracolo”. Non nel senso di un evento “raro”, anche se oggi in effetti sono pochissimi coloro che acconsentono a iniziare o a continuare un percorso di tipo vocazionale nelle nostre comunità cristiane della vecchia Europa. È un miracolo nel senso di “evento straordinario” per il mistero dell’azione di Dio che sceglie, si fa riconoscere e si impone come il motivo dell’esistenza e spinge a mettersi “sulla via” dietro Cristo.

E’ la “grazia degli inizi” che si manifesta ad ogni risposta vocazionale. E fa bene anche a chi ha già risposto prima, vedere come si rinnova il coraggio di rispondere alla chiamata di Dio. E’ una specie di luce che si accende all’improvviso nella propria vita e che fa vedere tutto sotto il carattere della novità. È una scintilla che accende un fuoco che divampa. Una forza irresistibile emerge dalle proprie profondità e spinge in una direzione ben precisa. San Paolo ha espresso tutto questo in quel pensiero che dice ai Corinti: “Caritas Christi urget nos!”, che possiamo tradurre con: la Carità di Cristo ci “costringe”, ci “sequestra”, ci “assedia”, ci “tormenta”. La nuova versione traduce: “L’Amore di Cristo ci possiede!”, a tal punto da non riuscire più a vivere per se stessi, ma per Colui che è morto e risorto per noi (2 Cor 5,14-17).

Allora la verità di sé appare con l’evidenza delle montagne, ed è in questi momenti che si ha l’assoluta certezza di doversi decidere per Cristo, di non poter dilazionare la scelta, che si deve lasciare tutto e seguirlo. Tutto deve esser fatto in fretta. Non c’è tempo per pensare troppo. Tutti i racconti di sequela nei Vangeli sono così. E il buon Dio approfitta di una certa incoscienza giovanile per fare breccia, per aprirsi un varco in noi, per ritagliarsi uno spazio per stabilire la sua dimora. È il vero miracolo della potenza di Dio che ci afferra e ci arricchisce di sé.

Si fa allora l’esperienza di essere “ispirati” a fare una scelta. E ci si ritrova immediatamente in una avventura più grande di noi. Quanti giovani non colgono l’attimo e si lasciano sfuggire qualcosa di grande, di unico! Più passano gli anni e più è difficile rispondere. E anche quando la grazia della chiamata torna a farsi sentire in età più adulta, a quel punto bisogna tornare bambini per poter rispondere. Tornare bambini da giovani è facile. Farsi piccoli per il Regno dei cieli, da adulti o da vecchi, è più difficile. Perché rispondere ad una chiamata, esplicita, chiara, significa vivere una specie di pazzia. Significa essere a contatto con il divino, intuire che cos’è un atto creativo. Perché Dio crea ogni vocazione. La fa esistere dal nulla! Poi il tumulto dello spirito si placa, il fuoco si attenua. La vita riacquista i suoi colori ordinari. Ma ormai si è stati sensibilizzati. Cuore e intelletto sono stati conquistati dal mistero di Dio che si è presentato.

Ora bisogna farsi capire dagli uomini. Occorre dire “il sentito”. Le parole vengono lanciate al mondo. Si cerca di raccontare, di dire qualcosa, di spiegare agli altri le ragioni di una scelta. Ma non vi si riesce fino in fondo. Gli uomini si impadroniscono delle nostre parole, le contano, le pesano, le rigirano in tutti i versi. Le ragioni della ragione interrogano, cercano spiegazioni. La scelta vocazionale, fatta nella fede, viene combattuta, demolita, forse anche annientata. Si apre uno spazio di conflitto in noi.

Si entra in seminario, forti di una scelta fatta, ma deboli nelle ragioni che la sostengono. A questo punto il seminario rappresenta l’àncora di salvezza, perché si configura come quel luogo insostituibile che aiuta a trovare le parole. Quelle giuste, quelle che orientano, quelle che parlano. Anzitutto a se stessi e poi agli altri.

La vita di fede è sostenuta dalla Parola e dalla Liturgia. La carità è messa alla prova dalla convivenza. La speranza è alimentata dallo studio. Si ritrova lo slancio nella comunione. E la teologia, tra tutte le discipline, appare sempre più come la scienza della salvezza (Lc 1, 76 – 77).

Ogni anno passato in seminario è “storia di salvezza”. Ogni seminarista che rimane in condizioni di “vocazione-invocazione” è un miracolo. E ogni prete formatore che continua a “rispondere invocando” è una creazione della pura grazia. E allora raccogliere la vita di un seminario è importante perché costringe ad andare oltre i “nudi fatti” per scoprire il “segreto nascosto” dentro le vite di coloro che lo formano.

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